Il Pirata non era un ciclista come gli altri.
Aveva le stimmate dello scalatore, quella fame che ti divora dentro, tipica di chi è cresciuto senza aspettarsi troppo dalla vita e vede nello striscione del traguardo un meraviglioso punto d’arrivo, una rivincita.
Pantani guardava la vetta, fosse l’Alpe d’Huez, il Mortirolo o il Santuario di Oropa, e partiva: mulinava sui pedali e saltava avversari come birilli, a testa bassa, ingoiando il piano tattico e facendo quello che sapeva fare meglio, scalare le montagne e piombare giù come un pazzo in discesa.
Poca tattica, puro istinto.
Marco era quel tipo di ciclista che non esiste più, che ha lasciato il calco sulle strade del Giro e del Tour, che ti frulla nel cervello ogni volta che la strada comincia a salire, che ti fa dire: “pensa qui, se ci fosse Pantani”.
Pantani c’era, eccome.
C’era anche quella mattina a Madonna di Campiglio, quando le sue analisi vennero alterate e qualcuno decise di spegnere l’interruttore e il sorriso, forse per lucrare sulle scommesse piazzate su chi non avrebbe mai e poi mai potuto vincere quel Giro.
Forse.
Quella volta non c’era il Galibier da domare sotto la pioggia, nessun Ulrich, nessun Jalabert, nessuna rimonta impossibile, nessuna bandana da gettare a terra a pochi chilometri dal traguardo.
Quella volta c’erano fango e delinquenti, denaro e affari, fantasmi vigliacchi che non puoi sconfiggere in bicicletta, neanche se ti chiami Pantani, neanche se hai altre tappe davanti a te; perché i fantasmi ritornano, non ti lasciano mai solo, ti tormentano.
Fu il salto di catena decisivo, quello che non ti lascia scampo.
A Marco fu fatale, al ciclismo di più.
Eppure l’eternità di un mito sta tutta lì, in quell’espressione da bambini davanti alla televisione, al primo cavalcavia di un grande Giro, che ci fa esclamare ogni volta: “Ah, se ci fosse stato Pantani”.
E vederlo scattare, anche in mezzo ai fantasmi, lasciandoli indietro come birilli.
Ah, se ci fosse ancora Pantani.