Il Covid-19 e la Protezione Civile “dimenticata”.
Le battaglie perse si riassumono in due parole: troppo tardi.
(Douglas MacArthur)
Dalle sabbie mobili dell’emergenza Covid-19 emerge la solita Italia senza attributi, quella che va in guerra ma “non si deve sapere in giro”, quella che vorrebbe sempre aspettare che sia certo il vincitore prima di schierarsi; l’Italietta dei generali che giurano fedeltà a giorni alterni e dei soldati lasciati in balìa degli eventi, con le mostrine cangianti e l’equipaggiamento scarso.
La pandemia è una guerra.
Inutile pensare di combatterla come se fosse una normale emergenza sanitaria, con una impostazione gerarchica più simile al telefono senza fili che alle quadrate legioni romane.
E la guerra l’abbiamo già persa.
Nel modo peggiore, come da tradizione.
L’abbiamo perso quando abbiamo deciso che lo scaricabarile fosse la soluzione migliore, senza dichiarare davvero lo stato di emergenza e adeguare scelte e decisioni a un evento straordinario, gravissimo e da affrontare con velocità e capacità di reazione.
Si è tirato a campare a colpi di DPCM, dichiarati, spifferati, annunciati a mezzo stampa, “per vedere l’effetto che fa”, anziché condividere con il Parlamento l’unica scelta che avrebbe consentito di affrontare adeguatamente la situazione: costituire un Gabinetto di Guerra nel quale la Protezione Civile diventasse la longa manus dell’Esecutivo, affidando all’unico organismo in grado di farlo il compito di coordinare le misure da adottare, la gestione delle criticità locali, il lavoro dei volontari, il necessario supporto alle strutture sanitarie e alla popolazione.
Perché? Perché la Protezione Civile ha la cultura dell’emergenza, è strutturata territorialmente, ha un proprio Esercito: i volontari.
E alla Protezione Civile, quella vera e non svuotata di poteri e significato per ragioni ideologiche e politiche, si sarebbe dovuta affidare anche la “comunicazione di guerra”, quella che serve a rassicurare e selezionare le notizie prima che finiscano nel tritacarne dei social; quella comunicazione univoca, chiara, efficace, che avrebbe evitato che ogni dichiarazione si trasformasse in un meme sul quale ironizzare e dividersi, una comunicazione istituzionale che avrebbe tolto alla neonata corporazione dei virologi, veri o improvvisati, il monopolio della schizofrenia di dati e curve di contagio.
Come si fa dopo un terremoto, una calamità naturale, si sarebbe dovuto derogare con maggiore coraggio alla rigidità delle procedure degli appalti pubblici, perché la salute della popolazione e l’esigenza di non far saltare in aria l’economia non possono venire dopo le paturnie pseudo-legalitarie di un novello comitato di salute pubblica, dove a sostituire Robespierre, Saint Just e Couthon ci ritroviamo per giunta Di Maio, Toninelli e l’Azzolina.
Chi sbaglia paga, anche duramente, ma in guerra l’esitazione è fatale e il tempo è tutto.
E invece no.
La Protezione Civile decisionista non esiste e nessuno la vuole fra quelli che siedono nei posti del potere, anche solo per non dover dare ragione a Bertolaso e ai bertolasiani.
È stata cancellata dall’immaginario governativo dopo gli scandali (veri o presunti) dei Grandi Eventi; come se la colpa della mancata vigilanza si dovesse espiare resettando il valore etico e morale di quelle divise in tutti gli scenari emergenziali d’Italia e del mondo, dove si è spesso toccato con mano il significato profondo della solidarietà, fatta di esempio prima ancora che di dichiarazioni di principio.
In questa Italia senza protezione Civile le decisioni sono una panna montata impazzita di Decreti e Ordinanze, in un palleggio di responsabilità fra lo Stato e le Regioni, combattuto, ça va sans dire, a colpi di tweet, conferenze stampa e video-dirette del Presidente del Consiglio da fare invidia a Wanna Marchi e alla figlia Stefania.
L’italietta finto-federale si ritrova alla deriva, dantescamente senza nocchiero e in mezzo alla tempesta, mentre gli Italiani, sempre più “tifosi”, si dividono nel dare più responsabilità a Conte o all’ultimo dei Presidenti di Regione, a seconda della propria appartenenza e dell’appeal di De Luca, Toti o Musumeci.
Il risultato è la guerra civile.
Una guerra civile che lascia morti, riempie le terapie intensive e fa saltare in aria il Servizio Sanitario Nazionale, quando sarebbe bastato utilizzare la tregua estiva per scavare le trincee città per città, prepararsi al lungo inverno, accettare di spendere i soldi pubblici per attrezzare gli ospedali con il sistema del vuoto per pieno, sapendo che prima o poi le sirene avrebbero ripreso a squillare.
E invece il nulla.
Un’estate al mare, le dita incrociate, e adesso la corsa a tappare buchi, condita dalle accuse reciproche, senza una strategia precisa che non sia quella di ispezionare i fondi di caffè per provare a prevedere il futuro.
Il balletto dei virologi e degli esperti catodici non è altro che il ribaltamento sociale della confusione che regna a Palazzo Chigi e dintorni.
Fra chiusure e mezze chiusure l’economia crolla e gli Italiani vengono spinti verso il baratro, soffocati dalla disarmante incapacità di prendere decisioni strategiche forti da parte di chi li dovrebbe guidare, con i contentini dei ristori per evitare che la guerra civile scoppi davvero.
Il Covid-19 ha messo a nudo la debolezza del sistema-Italia e ci ha ricordato quanto coraggio servirebbe per essere degni di rappresentare gli Italiani e quanta poca qualità ci sia nelle stanze dei bottoni, ad ogni livello, non solo all’apice della piramide. Non resta che sperare davvero che una guerra non scoppi mai: ci mancherebbe il coraggio e anche il valore.