Era il 1993.
L’otto gennaio del 1993.
Beppe Alfano fu freddato dai killer mentre tornava a casa, forse non del tutto ignaro del fatto che su di lui pendesse una condanna a morte da parte della mafia.
Beppe scriveva, senza filtri, di criminalità organizzata, rapporti fra mafia e massoneria e, probabilmente, aveva “incrociato” la latitanza del boss catanese Nitto Santapaola nel centro peloritano.
Per questo morì, anche se il processo sul suo assassinio, dopo quasi trent’anni, non può ancora dirsi concluso.
Giornalista senza tesserino, corrispondente per La Sicilia da Barcellona Pozzo di Gotto, militante del Movimento Sociale, pagò con la vita l’intransigenza delle proprie idee e la schiena dritta.
Morì nello stesso giorno in cui, nel 1921, nasceva Leonardo Sciascia, cantore della sicilitudine migliore e “cronista” attento della soffocante cappa della mafia e del malaffare sull’Isola, anche quella dei colletti bianchi.
Ci sono storie che si intrecciano in Sicilia, destini segnati dal piombo e dall’indifferenza, ma ci sono anche uomini e donne che non hanno abbassato la testa se non davanti alla vigliaccheria di chi spara a chi non può difendersi.
È anche la storia di Beppe, forse meno conosciuta delle altre, meno cinematografica, meno raccontata: per questo l’8 gennaio vive nel suo ricordo.
“La mafia era, ed è, altra cosa: un «sistema» che in Sicilia contiene e muove gli interessi economici e di potere di una classe che approssimativamente possiamo dire borghese; e non sorge e si sviluppa nel «vuoto» dello Stato (cioè quando lo Stato, con le sue leggi e le sue funzioni, è debole o manca) ma «dentro» lo Stato. La mafia insomma altro non è che una borghesia parassitaria, una borghesia che non imprende ma soltanto sfrutta.”
LEONARDO SCIASCIA