Bastava un soffio, un colpo di vento, e addio. Se si alzava la bora, che veniva da Fiume, ormai diventato stabilmente Rijeka, tanti saluti, uno era disfatto, gettato in aria come uno straccio, o una foglia di granturco. Si viveva giorno per giorno. Ogni cosa poteva accadere.
Carlo Sgorlon, La foiba grande
A chi giova la memoria divisa?
Perché, a distanza di così tanti anni dai fatti del confine orientale e a diciassette dalla Legge che ha istituito la Giornata del Ricordo, si fa tanta fatica a leggere la storia senza le lenti deformanti dell’ideologia?
Perché ci si ostina a minimizzare, banalizzare, a volte ridicolizzare un tragico fatto storico che ha visto coinvolti centinaia di migliaia di Italiani, fra quelli assassinati e gettati vivi nelle foibe e quelli costretti ad abbandonare la propria casa?
Eppure i ritrovamenti non si sono mai fermati. Cadaveri, a centinaia, certo non riconducibili a militari o “fascisti” compromessi col regime: come nel caso di quelli ritrovati ad agosto da una squadra di speleologi sloveni nella zona del Kočevski Rog, nelle immediate vicinanze di un vecchio ospedale partigiano. Lo storico sloveno Jože Dežman, capo della Commissione statale per l’Individuazione delle fosse comuni ha utilizzato parole chiare in conferenza stampa: “Oltre un centinaio erano ragazzini tra i 15 e i 17 anni, e assieme a questi abbiamo rinvenuto anche cinque donne”.
Donne, bambini, civili, partigiani “bianchi”, “rei” di ostacolare, con la loro esistenza, il processo di pulizia etnica e di slavizzazione delle terre del confine orientale.
E tanti altri, circa 350mila, che lasciarono tutto e fuggirono verso l’Italia, sperando di trovare solidarietà e dimenticare l’orrore della guerra e gli eccidi del dopoguerra.
Trovarono sputi, ostracismo e campi profughi, grazie alla campagna di demonizzazione voluta dal Partito Comunista, preoccupato di non mettere in discussione la vicinanza a Tito. Subiranno poi, grazie a quel clima e alla sostanziale indifferenza della classe politica italiana, l’umiliazione del Trattato di Osimo, firmato il 10 novembre del 1975.
È storia.
Esattamente come lo è stata il fascismo, la guerra, l’occupazione nazista.
Eppure quando si parla di questi fatti si prende il bilancino e si sceglie di fare la contabilità dei morti e di stabilire, contro ogni evidenza, che nelle foibe morirono i fascisti e che l’operazione del Ricordo non sia altro che una invenzione della Destra, malata di irredentismo e di nostalgismo.
Alla Destra il tema delle foibe l’hanno “regalato”, a voler raccontare le cose come stanno, tutti coloro che hanno preferito negare, tacere, lasciare che i libri di storia non facessero menzione di avvenimenti che chiunque vivesse a quelle latitudini conosceva benissimo.
Per la orribile galassia negazionista, i mandanti di questa operazione sarebbero, per quei paradossi della storia, anche “compagni” come Luciano Violante, che nel 1996 pronunciò parole inequivocabili: “Nella storia scritta dai vincitori, e nelle convenienze che segnarono la guerra fredda, e che comportavano un atteggiamento di particolare condiscendenza per Tito, le foibe dovevano scomparire dalla memoria nazionale”.
“Compagni che sbagliavano”, evidentemente, se l’ANPI, nel 2021, sente ancora l’esigenza di spccare il capello in quattro e lasciare che alcuni dei loro iscritti parlino di “fandonia di Basovizza”, riferendosi a una delle cavità carsiche simbolo di questa tragedia dimenticata dalla storia. “Compagni che sbagliavano” anche per i giovanissimi studenti dei licei, che preferiscono parlare in assemblea di qualsiasi cosa, eccetto che di foibe ed esodo; fiancheggiati spesso da capi d’Istituto e docenti di storia “pigri”, restii a ricordare che c’è una Giornata del Ricordo istituita per legge, che bisognerebbe parlarne, che bisognerebbe fare esercizio di memoria, per unire, non per dividere.
Per questo occorre ancora parlarne e farlo alzando la voce, cercando di farsi sentire sopra il brusìo insopportabile del silenzio.
In attesa che il 10 febbraio non sia solo la giornata di “una parte”, come forse fa cinicamente gioco anche a chi nega l’esistenza delle foibe; in attesa che si possa studiare la storia senza amnesie, senza agitare vessilli di parte o utilizzare fatti tragici come strumento di contrapposizione politica ed ideologica.
In attesa che finisca questa guerra civile strisciante che ha impedito per anni, e lo impedisce tutt’ora, di dare una degna sepoltura a quei morti e di poggiare sulle loro bare un Tricolore; di fatto la medesima damnatio memoriae che ha lasciato che fossero considerati connazionali di serie B gli esuli istriani, fiumani e dalmati.
La guerra è finita. E anche il dopoguerra.
È così complicato farsene una ragione?
A più di settant’anni dalla morte del mio povero padre, ogni 2 novembre io vado a posare un fiore sulla tomba di uno sconosciuto, perché non so in quale foiba siano stati buttati i suoi resti.
Piero Tarticchio