Il quarantaseiesimo Presidente degli Stati Uniti d’America è riuscito in una settimana a farci rimpiangere uno qualunque dei suoi predecessori, forse persino Richard Nixon in pieno scandalo Watergate.
La sua immagine di ieri, in lacrime dopo l’attentato afgano del redivivo ISIS corredato da una “K”, è la summa delle prime uscite di politica estera della nuova Amministrazione Stelle e Strisce: un disastro.
Un disastro pericoloso, perché mostra a tutto il mondo, comprese Russia e Cina, tutt’altro che disinteressate allo scenario afgano, quanta approssimazione ci sia nelle scelte del Presidente, aggravata da una debolezza umana che l’uomo con l’arsenale più devastante del Globo non può permettersi.
Non sono lacrime di umanità quelle mandate in mondovisione, ma di impotenza, di debolezza, di resa.
Il tutto condito dal paradosso delle parole di Biden, subito dopo le lacrime: gli Americani sarebbero pronti a inviare truppe per vendicare gli americani morti a causa del ritiro tumultuoso delle truppe; se non fosse tragico, farebbe ridere.
In pieno furore iconoclasta rispetto all’odiato Trump, la sensazione è che i Democratici in crisi di leadership abbiano fatto come nella celebre pubblicità della Fiat, decidendo di andare “col primo che passa”.
Eppure la cifra politica di Joe Biden e le sue claudicanti tesi sulla politica estera americana erano chiare a tutti, così come il suo indecisionismo mascherato da understatement.
La finzione è durata il tempo di una avanzata talebana, favorita dal ritiro a gambe levate delle truppe americane, che sul terreno hanno lasciato anche divise e mezzi, diventati poi feticci social per le truppe avanzanti: una ritirata anche esteticamente inguardabile, utile solo a ringalluzzire i barbuti custodi dell’ortodossia e a portarli in carrozza fino a Kabul, senza lo straccio di una resistenza.
Gli Stati Uniti non hanno avvisato nessuno degli alleati della ritirata ingloriosa, mettendo a rischio le vite di militari e civili di altre Nazioni presenti sul campo, oltre a quelle, evidentemente sacrificabili, di migliaia di cooperanti locali.
Piange Biden e piange l’Occidente in frantumi; piange l’Europa, impossibilitata a celare dietro l’attivismo statunitense e atlantico le proprie debolezze strutturali; piangono gli afghani e le afghane, convinti di essersi lasciati per sempre alle spalle l’orribile, disumana e discutibile interpretazione del Corano da parte dei Talebani e oggi ripiombati nell’incubo, con l’aggravante delle migliaia di delatori pronti a vendere ai nuovi potenti i collaborazionisti.
Piange Biden, ma dovremmo piangere noi.
Gli unici a non versare una lacrima e a non foatare di fronte all’orrore, chissà perché, sono i tanti osservatori, giornalisti e pseudo-intellettuali di casa nostra, preoccupati solo dell’impresentabilità conclamata di Trump, in nome della quale hanno osannato acriticamente il nulla sottovuoto spinto del suo successore.
E oggi sono ancora lì, a cercare le colpe negli altri, a strizzare gli occhi di fronte ai poveri cristi che precipitano dagli aerei in movimento, a chiedersi il perché di tanto orrore, quando il perché è sotto gli occhi di tutti: la debolezza dell’Occidente, politica, umana e militare, si rispecchia nelle lacrime da coccodrillo dell’omino col vestito buono e la valigetta nucleare accanto, massimo rappresentante della Nazione che ha trattato la resa incondizionata ai Talebani e ha riconsegnato il Mondo al caos.